Autogol Brancher, dopo le dimissioni il verdetto fra 20 giorni
di Gianni Barbacetto
È il primo ministro che si dimette non davanti al capo dello Stato, ma davanti al giudice: Aldo Brancher, ministro di Non-Si-Sa-Che, si è presentato questa mattina in aula al palazzo di Giustizia di Milano, dove dovrà essere processato per il denaro ricevuto dal banchiere di Lodi Gianpiero Fiorani. Ha fatto una breve dichiarazione spontanea, in cui ha spiegato di voler rinunciare al “legittimo impedimento”, chiedendo di essere giudicato con rito abbreviato (cioè sulla base degli elementi finora raccolti negli atti processuali). “La mia presenza è un segno di rispetto per il tribunale”, ha detto al giudice Anna Maria Gatto. “Sono qui a difendere la mia innocenza”. Poi ha annunciato le sue “dimissioni irrevocabili” da ministro: “Al fine di consentire una rapida chiusura della vicenda che mi riguarda”.
Caso chiuso, dunque? Tutto finito e amici come prima? No. Il caso Brancher resta una ferita aperta nella maggioranza di centrodestra e del corpo vivo del suo leader, Silvio Berlusconi. Intanto perché è un caso di plateale, completo, evidente fallimento: il capo del governo lo ha fatto ministro (offrendogli così lo scudo per non essere processato), ma ha dovuto fare marcia indietro. Quella nomina ministeriale, Silvio la doveva all’amico Aldo, che lo aveva salvato, restando zitto in galera nel 1993. Ma si è rivelata una mossa sbagliata che gli ha fatto, in un colpo solo, perdere consensi, incrinare i rapporti con Umberto Bossi, attirare gli strali del capo dello Stato.
Una scelta che ha avuto un effetto se possibile anche più dirompente: ha reso evidente la profonda crisi di Silvio, che dice “Ghe pensi mi”, ma non riesce più a tenere insieme la sua truppa. Che Gianfranco Fini remi contro non è più una novità. Ma che ora ci siano punti di rottura anche con la Lega, questa sì che è una notizia: gli uomini del Carroccio sono stati finora i pretoriani di Silvio, disposti a fare quadrato attorno a lui a ogni costo, più di tanti “amici” del Pdl. Ma su Brancher qualcosa si è spezzato. Qualcosa d’indicibile, che ancora non riusciamo a vedere del tutto. Brancher è dal 1994 l’ufficiale di collegamento, come si dice, tra Silvio e Umberto, l’uomo che tiene i contatti, che conosce i segreti del riavvicinamento della Lega a Berlusconi (nel 1994 chiamato sulla Padania “Il mafioso di Arcore”). È anche l’uomo che sa quale percorso hanno fatto i soldi della Banca popolare di Lodi che Fiorani sostiene di aver dato a Brancher “anche per la Lega” e in particolare “per Roberto Calderoli”. Questo è il punto più delicato: del processo che non si doveva fare, per effetto della nomina a ministro con legittimo impedimento incluso; e (dopo il fallimento del piano) del processo che ora invece si farà.
Il risultato è disastroso. Per ridurre i danni, Brancher ha chiesto il rito abbreviato, a porte chiuse, senza cronisti curiosi; e celebrato allo stato degli atti. In questo modo, verranno evitati nuovi, imbarazzanti interrogatori a Fiorani (che racconta di aver pagato) e a Calderoli (che nega di aver incassato). Ma Brancher, finché era sottosegretario, aveva di fronte a sé la prospettiva di vedere la sentenza fra molti mesi. Ora invece, dopo la bella idea di farlo ministro, incasserà già tra venti giorni un verdetto che potrebbe essere di condanna, e per reati gravi come la ricettazione e l’appropriazione indebita. La sentenza potrebbe infatti arrivare già a fine luglio, prima della discussione della legge sulle intercettazioni: una brutta botta per il governo.
Brancher continua a fare quello che ha sempre fatto, fin dal 1993: il parafulmini, il capro espiatorio, assumendo tutte su di sé le responsabilità di Berlusconi e, questa volta, anche della Lega. Non sapremo mai chi dice la verità: Fiorani, che paga per Brancher e Calderoli (“Ho consegnato la busta a Brancher, il quale mi disse che doveva dividerla con Calderoli perché il ministro aveva bisogno di soldi per la sua attività politica”); o Calderoli, che dice di non saperne niente? Alessandro Patelli, il cassiere leghista dei tempi eroici, negli anni di Mani pulite dovette darsi del “pirla” per avere incassato i soldi di Montedison. Brancher questa volta farà da parafulmine anche per il Carroccio, per evitare che qualcun’altro debba darsi del “pirla”. Comunque sia, questa non è una bella storia né per la Lega, né per Berlusconi, che continua a incassare colpi inferti a un governo che già barcolla. Alla faccia dei “Ghe pensi mi”.
Caso chiuso, dunque? Tutto finito e amici come prima? No. Il caso Brancher resta una ferita aperta nella maggioranza di centrodestra e del corpo vivo del suo leader, Silvio Berlusconi. Intanto perché è un caso di plateale, completo, evidente fallimento: il capo del governo lo ha fatto ministro (offrendogli così lo scudo per non essere processato), ma ha dovuto fare marcia indietro. Quella nomina ministeriale, Silvio la doveva all’amico Aldo, che lo aveva salvato, restando zitto in galera nel 1993. Ma si è rivelata una mossa sbagliata che gli ha fatto, in un colpo solo, perdere consensi, incrinare i rapporti con Umberto Bossi, attirare gli strali del capo dello Stato.
Una scelta che ha avuto un effetto se possibile anche più dirompente: ha reso evidente la profonda crisi di Silvio, che dice “Ghe pensi mi”, ma non riesce più a tenere insieme la sua truppa. Che Gianfranco Fini remi contro non è più una novità. Ma che ora ci siano punti di rottura anche con la Lega, questa sì che è una notizia: gli uomini del Carroccio sono stati finora i pretoriani di Silvio, disposti a fare quadrato attorno a lui a ogni costo, più di tanti “amici” del Pdl. Ma su Brancher qualcosa si è spezzato. Qualcosa d’indicibile, che ancora non riusciamo a vedere del tutto. Brancher è dal 1994 l’ufficiale di collegamento, come si dice, tra Silvio e Umberto, l’uomo che tiene i contatti, che conosce i segreti del riavvicinamento della Lega a Berlusconi (nel 1994 chiamato sulla Padania “Il mafioso di Arcore”). È anche l’uomo che sa quale percorso hanno fatto i soldi della Banca popolare di Lodi che Fiorani sostiene di aver dato a Brancher “anche per la Lega” e in particolare “per Roberto Calderoli”. Questo è il punto più delicato: del processo che non si doveva fare, per effetto della nomina a ministro con legittimo impedimento incluso; e (dopo il fallimento del piano) del processo che ora invece si farà.
Il risultato è disastroso. Per ridurre i danni, Brancher ha chiesto il rito abbreviato, a porte chiuse, senza cronisti curiosi; e celebrato allo stato degli atti. In questo modo, verranno evitati nuovi, imbarazzanti interrogatori a Fiorani (che racconta di aver pagato) e a Calderoli (che nega di aver incassato). Ma Brancher, finché era sottosegretario, aveva di fronte a sé la prospettiva di vedere la sentenza fra molti mesi. Ora invece, dopo la bella idea di farlo ministro, incasserà già tra venti giorni un verdetto che potrebbe essere di condanna, e per reati gravi come la ricettazione e l’appropriazione indebita. La sentenza potrebbe infatti arrivare già a fine luglio, prima della discussione della legge sulle intercettazioni: una brutta botta per il governo.
Brancher continua a fare quello che ha sempre fatto, fin dal 1993: il parafulmini, il capro espiatorio, assumendo tutte su di sé le responsabilità di Berlusconi e, questa volta, anche della Lega. Non sapremo mai chi dice la verità: Fiorani, che paga per Brancher e Calderoli (“Ho consegnato la busta a Brancher, il quale mi disse che doveva dividerla con Calderoli perché il ministro aveva bisogno di soldi per la sua attività politica”); o Calderoli, che dice di non saperne niente? Alessandro Patelli, il cassiere leghista dei tempi eroici, negli anni di Mani pulite dovette darsi del “pirla” per avere incassato i soldi di Montedison. Brancher questa volta farà da parafulmine anche per il Carroccio, per evitare che qualcun’altro debba darsi del “pirla”. Comunque sia, questa non è una bella storia né per la Lega, né per Berlusconi, che continua a incassare colpi inferti a un governo che già barcolla. Alla faccia dei “Ghe pensi mi”.
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